DINO MARANGON - 2003
In un’epoca come la nostra, nella quale tutta l’attenzione appare rivolta alle superficiali e multiformi fenomenologie dell’effimero e del momentaneo, risulta forse difficile avvicinarsi all’opera di Paolo Patelli, caratterizzata dal ponderato dipanarsi di un lungo percorso improntato alla duplice, meditativa processualità della decantazione e dell’affioramento a partire dalla concezione della cultura pittorica come vivente unità di tutti i dipinti che mai sono stati o mai potranno essere dipinti.
Provvisto di una solida formazione scientifica, il suo precoce approccio alla pittura è avvenuto, al di fuori delle limitanti diatribe allora in atto tra figurazione e astrazione, tra Neorealismo e il cosiddetto Astratto – Concreto, nell’ambito delle molteplici galassie dell’Informale.
Vicino e attento ai protagonisti dello Spazialismo Veneziano, le sue scelte cadranno su Gorky e i suoi improvvisi e sognanti vortici di immediatezza e di riflessione , di raccolta gestualità e di visione, sul fraseggio e sulle libere improvvisazioni della musica Jazz, sulle dissonanze, gli spaesamenti e i correlativi simbolici della nuova poesia anglosassone, su Wols, su Sam Francis, sulla splendida tensione delle aeree Primavere e dei rutilanti Papaveri di Tancredi, con esiti di una sensibile organicità, un po’ vegetale. Anche il rigore materico e la sospesa temporalità di Tàpies verranno in seguito suscitando il suo interesse.
Al pericolo di affogare nelle sabbie mobili di una sorta di pur raffinatissima pasticceria tardo – informale, Patelli verrà tuttavia ben presto reagendo, avvertendo il bisogno di stesure piatte , di limpide e semplici geometrie: quasi un ritorno all’alfabeto, all’A. B. C. della pittura.
E tuttavia, lungi dall’idolatrare idealistiche apparizioni euclidee, eccolo allora contrappuntare tali uniformi e compatte superfici di, apparentemente accidentali, ancorché ordinate aggregazioni di ripetuti elementi circolari realizzati però, non ricorrendo a righelli o adesivi, bensì ad ausili oggettuali, quali semplici piatti, con accuratissima manualità. Una personalissima declinazione della pittura Hard Edge quindi, nell’ambito della quale proprio una particolare attenzione all’oggettualità porterà Patelli prima a sostituire alcune parti dipinte con materiali nuovi quali la plastica o il plexiglass e quindi a realizzare grandi shaped canvas monocolori.
Il passo successivo lo porterà a superare ogni residua concezione del quadro – finestra, racchiudente in sé uno spazio virtuale diverso da quello da esso realmente, fisicamente occupato.
Svelatasi quale oggetto dipinto, l’opera pittorica verrà allora perdendo la propria totalizzante e metafisica unità per scindersi in più parti in grado di dialogare alla pari con lo spazio reale.
Un diverso procedimento questo, frutto di una nuove progettualità, tale da comportare una essenziale rifondazione concettuale e percettiva dell’operare artistico , al punto che, come avrà modo di scrivere lo stesso Patelli nella sua autopresentazione per una personale alla veneziana Galleria del Cavallino: “In un allegro periodo alessandrino, questo amato odiato 1968, l’arte può essere per breve tempo fatta come analisi del linguaggio stesso dell’arte.”
E’ particolarmente interessante notare come già allora la validità dei programmi della Pittura Analitica, basati sulla presunzione che fosse possibile eliminare dall’opera ogni ulteriorità imprevista rispetto ai dati di partenza, nei quali andavano ricompresi anche i precetti combinatori ed i mezzi utilizzati nel corso dell’esecuzione, che doveva essere il più possibile predeterminata e asoggettiva , fosse ritenuta momentanea e insufficiente.
Al di là delle incongruenze gnoseologiche - da cui traevano fondamento tali assunti – in seguito evidenziati dalla radicale critica ai dogmatismi della tradizionale dicotomia fra giudizi analitici e sintetici, approfondita, ad esempio da Quine, ciò che salverà Patelli dal rischio di una vuota esibizione del mestiere della pittura, se non , peggio, da un suadente quanto inutile styling, sarà da un lato la capacità (rafforzata oltre che dalla sua già citata , profonda preparazione scientifica, dalla consuetudine con quello che potrebbe essere definito un Poverismo Internazionale: da Keith Sonnier a Eva Hesse, solo per fare qualche nome) di riconoscere e mettere a tema i valori, la forza e la bellezza dei materiali e delle cose, e, dall’altro, la pervasiva e ineludibile coscienza che la pittura vive dell’intero svolgimento dell’insieme dei suoi irripetibili eventi.
E’ da questo intensissimo coagulo di significati e di riflessioni, di pulsioni e di sentimenti che troveranno origine sia una particolare sottolineatura delle caratteristiche di duttilità, di flessuosità e di morbidezza di celluloidi, reti, pellicole gomme, resine, spesso appese e liberamente fluttuanti nello spazio, o avvolte in assemblaggi e grovigli persino incongrui, con esiti talora di una durezza d’impatto tale da attingere a poetiche Punk, sia , per converso, una rinnovata attenzione al dipingere, in un orizzonte che si estenderà dal realismo di Robert Ryman (in quanto operare che appartiene alla realtà fisica) alla gestualità psicodinamica di De Kooning, alla pennellata di Michael Goldberg, dal colore mistico e contemplativo di Rothko, alla fisicità cromatica di Gerhard Richter e alla ritualità sciamanica di Beuys.
La pittura verrà allora dilagando in mari di colore all’interno del quale si sviluppa il moto incessante degli intervalli e delle tensioni luminose, in un continuum sincopato dalla suddivisione analitica dei supporti in molteplici pannelli, in un ininterrotto gioco di emersioni e di occultamenti, di contrasti e di espansioni, con la parete, in un susseguirsi di eventi eidetici che hanno la consistenza della res, e di cose che manifestano e alimentano espansive ed erratiche virtualità.
Patelli, come egli stesso affermerà, cerca così di ottenere densità ideali ed emotive che superino la pura visibilità, per suscitare nascoste, ma efficienti energie originarie, come nei menhir, nei totem, nelle reliquie, o, per altro verso, sembra impegnato quasi a ricreare demiurgicamente il peso, la consistenza vitale e dinamica della natura.
In ogni caso la componente oggettuale dell’opera non sarà mai qualcosa di banale, di rimediato, di semplicemente trovato, essa appare infatti sempre filtrata e ricreata attraverso un sistema di visione.
La pittura, in una sempre nuova e diversa sintesi di strumenti, di mezzi, di concezioni e di modalità, viene così proponendosi, nell’ambito di una visione panteistica, quale tramite universale di ogni istanza umana.
Può, ad esempio, avvalersi del sottile leggerissimo candore della carta, intesa non come tabula rasa, dimensione puramente mentale, bensì come foglio in grado di consentire una particolare agilità di segno e di stesura, per liberare aeree variopinte scritture di paesaggio, oppure può accentuare l’aspetto poietico del dipingere , eliminando il pennello o qualsiasi altro medium, per agire direttamente con le mani, investendo i pigmenti e i supporti con la propria energia corporea, oppure sfiorandoli e accarezzandoli, quasi in un atto erotico. Azioni, gestualità, comportamenti culminanti nella serie delle Proiezioni del mio corpo, dei primissimi Anni Novanta che possono avere come sfondo più lontano la nuova concezione di esistenzialità spaziale mirabilmente sintetizzata nelle celebre frase di De Kooning: Se stendo le mie braccia intorno e mi domando dove sono le mie dita, ecco ho tracciato lo spazio che basta a un pittore, più prossimo, le ritualità orgiastiche e dirompenti, la riappropriazione delle forze creative del corpo e delle sue scariche emozionali, ma anche l’ironia mortale nei confronti del gesto eroico proprie all’Actionismus della cosiddetta Scuola di Vienna di Hermann Nitsch, Gunter Brus, Otto Muhl, Rudolf Schwarzkogler e soprattutto di Arnulf Rainer.
Al prevalente senso di oscurità, di eccesso e di scoppio istantaneo, di catastrofe e di morte degli austriaci, Patelli oppone però il suo senso del colore e delle sue possibili variazioni e interferenze, dei suoi cangiantismi sottolineati dalla mescolanza di frammenti micacei in grado di accendersi, brillare, innestare sorprendenti viraggi a seconda degli angoli di incidenza della luce e dei moti dei riguardanti, coinvolti quasi in una sorta di reinventata esecuzione partecipativa del fruitore, tipica delle cosiddette ricerche cinetico visuali, qui però depurate da ogni ideologia tecnicistica, per portarle a una più vitale e comunicativa dimensione esistenziale e addirittura umanistica, dal momento che l’esplicarsi generativamente dell’azione pittorica dai punti di snodo della figura induce a delle costanti che fanno emergere nel quadro incancellabili effigi, ineludibili simulacri archetipici in grado di evocare un ampio spettro di significati: dall’antica iconografia della vittoria alata, alla trascendente sacralità della crocifissione, alla affermazione laica del celebre uomo leonardesco.
Ancora una volta Patelli appare comunque in bilico tra registrazione e quasi sindone della sua ritualità comportamentale e la tentazione, il grumo d’immagine: pittura cioè come testimonianza dell’autore, ma, nello stesso tempo anche come delineazione di icona, concepita non tanto come imitazione o richiamo referenziale, quanto piuttosto quale sfuggente,ma vitale sintesi emblematica.
In ogni caso dopo tali flagranti affermazioni della gravitas e della voluntas, sulla base di una sempre più sedimentata saggezza, corroborata forse anche dalla pacifica e meditativa sapienza degli insegnamenti del Buddismo, nei suoi lavori più recenti, immersi in un biancore vellutato e caratterizzati dal trasmigrare di mobili, impercettibili segni, dal fiorire di trasparenti, equoree stille di colore, Patelli verrà praticando la grazia della levitas.
Si tratta di una pittura che nasce forse da una lontana, riaffiorante memoria pollockiana: un riferimento questo divenuto comunque pressoché totalmente altro. Lo spruzzo, il gocciolio cromatico lungi dall’essere una testimonianza materica della continuità della danza gestuale attraverso la quale il demiurgo americano cercava il proprio equilibrio e il proprio ordine nell’immersione panica nell’universo, nell’europeo Patelli acquista infatti significative trasparenze in grado di alludere, come in un moltiplicarsi di leggerissime sfere magiche, a imprevedibili profondità virtuali, enucleando fragranti microcosmi, vere e proprie autonome monadi - elementi costitutivi e conoscitivi di tutto l’universo – ricche di cristallina energia
Patelli sembra così silenziosamente suggerirci che non serve imporre nulla, che basta un cenno, una traccia, la aurorale freschezza della rugiada, la limpida, diafana chiarezza di una goccia d’acqua a dire e a permeare di nuovi sensi l’intero mondo.
Secondo Patelli non vi è insomma possibilità di attesa o ricerca di redenzione finale, vi può essere però, per l’uomo come per tutti gli esseri, momento per momento, il raggiungimento di uno stato migliore.
Per Patelli è infatti questione di qualità creativa, anche se per lui creatività e umanità sono ovviamente inscindibili, come d’altronde l’uomo non si può separare dalla natura e la natura concorre a dar vita alla totalità dell’universo.
Bene e male sono termini dialettici reciprocamente implicantisi, eppure non è la stessa cosa lasciare che il male si espanda tra noi, o, viceversa, confinarlo nella sua dimensione antagonistica di mero significato. Da ciò il profondo contenuto positivamente etico della sua pittura.
Se mi è possibile concludere con una sensazione puramente personale, i più recenti dipinti di Patelli mi fanno ritornare alla mente una consuetudine familiare.
Ricordo che quando ero bambino, una delle più grandi gioie di mio papà era andare a cogliere, di stagione in stagione, i primi frutti, per offrirli a mia mamma e a noi figli.
Tutto assumeva l’aspetto di un rito, accompagnato da sapienti parole sulla qualità, le vicende climatiche, gli attributi del frutto migliore.
Il fico più buono, ad esempio, si poteva scegliere dalla goccia di stillante miele che ne fuoriusciva.
E in quella lacrima ambrata noi gustavamo tutte le dolcezze del mondo.
Così come ora, divenuto adulto, nella rorida e rarefatta pioggia di colore dei quadri di Patelli mi pare di poter godere di molte delle delizie della pittura.
Dino Marangon, Paolo Patelli. Le realtà della pittura, catalogo mostra Galleria Multigraphic, Venezia 2003